Questo articolo ha lo scopo di mettere in luce e proporre al lettore una serie di considerazioni circa la spiccata tendenza delle tecnologie emergenti a convergere, per una sorta di legge naturale, verso una dicotomia interpretativa netta, con ampio consolidamento di un pensiero comune che troppo spesso tende a vedere solo il nero e il bianco, e non le infinite sfumature di grigio attorno a un certo argomento.
Ponendo l’accento sulle innovazioni connesse alla tecnologia blockchain, e alle recenti ricadute sull’opinione pubblica di determinati eventi recenti, dalla percepita recessione globale riguardante numerose cryptovalute ai vari scandali relativi alla dubbia condotta di alcuni exchange o piattaforme di cambio, l’obiettivo principale dell’argomentazione sarà di fornire esempi e relative controproposte per una sorta di vademecum utile a tutti, al fine di fare chiarezza e comprendere quanto le potenziali minacce implicite in una certa tecnologia, se lette criticamente, possano trasformarsi in importanti opportunità.
Facciamoci caso. Oggi praticamente tutti utilizzano uno smartphone, strumento che fino a non troppi anni fa veniva considerato, esattamente come accaduto per i primi personal computer della metà degli anni Ottanta, una diavoleria per soli addetti ai lavori. Eppure, nonostante la diffusione innegabile di tali oggetti tecnologici di uso ormai comune, capiterà sempre di sentire in giro frasi del genere:
“Per carità, non parlatemi di tecnologia. Abbiamo disimparato a stare insieme.
Oggi tutto è virtuale, non ci si incontra più di persona.
In rete ti rubano i soldi. Meglio i cari vecchi contanti, sotto il materasso…”
E via discorrendo.
Come mai avviene tutto ciò? La risposta è, paradossalmente, molto semplice. L’utente medio-basso (e purtroppo in Italia sono moltissime le persone cui mancano le basi di informatica e di inglese, la lingua riconosciuta dell’informatica) di qualsiasi tecnologia oggi sul mercato, presume di poterla utilizzare senza minimamente conoscerla. A fronte delle problematiche che possono insorgere in seguito a questo “uso istintivo”, la reazione possibile non è indirizzata contro la propria superficialità o ingenuità, ma contro la tecnologia stessa, facile capro espiatorio contro il quale rivolgere le proprie imprecazioni quotidiane, specie dopo un suo malfunzionamento.
La tecnologia, invece, qualunque sia il suo livello di articolazione o collocazione storica, ha sempre rappresentato un’entità neutra, a seconda dei casi (e degli utilizzatori, committenti o dittatori di turno) in grado di veicolare tanto il meglio quanto il peggio che l’umanità ha saputo esprimere. D’altra parte, non è certo la vendita di banali coltelli da cucina a incentivare gli omicidi domestici (e non sarà un rimedio come quello di non consentire la libera vendita dei coltelli ma di esporli in scaffali vincolati da misure di sicurezza che prevedono l’intervento del personale del negozio, come stanno facendo alcune catene di supermercati), visto che anche solo il buonsenso ci fa capire quanto qualsiasi strumentazione o tecnologia, dal filo d’acciaio all’energia atomica, passando per ogni possibile applicativo elettronico, anche il più apparentemente banale, possa essere utilizzata anche per scopi disdicevoli, poco etici, criminali o semplicemente disonesti.
La rivoluzionaria tecnologia della blockchain e delle sue primarie applicazioni, con specifico riferimento ai protocolli decentralizzati sviluppati e messi a disposizione per l’utenza comune, non fa ovviamente eccezione. Anzi, per certi versi, implicando una forte connessione col mondo dell’economia, della finanza, ovvero del tanto amato e odiato denaro, essa riassume tutto ciò che di potenzialmente divisivo possa generarsi all’interno di un dibattito pubblico. Non ci stupiamo dunque di quanto l’argomento cryptomonete generi in molti ambienti un rigetto “a prescindere”, totalmente incomprensibile per chiunque conosca veramente la materia.
Esattamente come accaduto per il Web1, rapidamente trasformatosi in Web2 grazie alle connessioni ad alta velocità diffuse a macchia d’olio dai primi anni Duemila ed ora (forse) pronto per il salto al Web3 e alle sue soluzioni innovative, dopo una prima fase confinata ad appassionati e addetti ai lavori, anche per l’operatività diffusa dei principali campi applicativi della decentralizzazione in blockchain siamo giunti alla piena adozione globale che ciascuno di noi ha sotto gli occhi quotidianamente.
Questo inesorabile addolcirsi della curva di apprendimento, affiancata da un progressivo abbassamento dei costi e dunque dei prezzi di vendita al pubblico dei più comuni device tecnologici, ha trasformato il mondo con esiti piuttosto prevedibili, sia nel male (costantemente pubblicizzato) che nel bene (troppo spesso taciuto).
Confinando l’analisi al solo mondo del Web, c’è da dire che nonostante la relativa arretratezza infrastrutturale che permane in determinate aree del pianeta, anche, purtroppo, nazionali, è tuttavia fuori discussione il fatto che oggi praticamente ogni attività umana sia operativa su autostrade telematiche, dal commercio al dettaglio alle comunicazioni personali, dalla propaganda politica alla creazione di contenuti multimediali, per non parlare dell’informazione, del marketing, dell’intrattenimento, della fornitura di servizi connessi alla pubblica amministrazione, fino alle più articolate interazioni caratteristiche dei campi industriali, scientifici, logistici e culturali. Non è un caso che tale trasformazione abbia messo e stia mettendo in crisi numerosi settori che oggi tentano, a volte efficacemente, altre volte meno, una rinascita nella Grande Rete, esattamente come avvenne tempo fa per gli operatori che trattavano il noleggio dello scomparso supporto VHS.
Di contro, dovendo continuare l’evidente parallelo tra lo sviluppo di internet dagli esordi ai giorni nostri, giova ricordare (e saranno molti gli ex universitari “cafoscarini e bocconiani” a ricordarselo) che nei primi anni Duemila il sogno di Jeff Bezos, relativo al commercio globale grazie alla nascente piattaforma Amazon, veniva considerato da una buona metà di economisti ed esperti di organizzazioni commerciali come poco più che una follia. Verrebbe da dire: se tanto mi dà tanto…
Non è un caso dunque che, a fronte di una tecnologia disponibile e appunto ormai diffusa e acquisita, anche le maggiori truffe si compiano oggi, per un puro e semplice adattamento naturale inevitabile, attraverso la mediazione di internet, lungo quella scia di ingenuità e disinvoltura dalle quali ciascuno di noi, attraverso la realizzazione delle buone abitudini in materia di sicurezza e privacy, dovrebbe guardarsi.
Parallelamente, non è un caso che una tecnologia come la blockchain, il cui utilizzo statisticamente preponderante si lega come ovvio alle transazioni cryptovalutarie, sia pesantemente interessata da continui dibattiti legati a truffe vere e proprie, nonché a scandali derivanti dall’insolvenza di progetti, aziende e soggetti che raggiungono l’opinione pubblica attraverso la brutale semplificazione dei media, spesso in contesti narrativi che fanno di tutta l’erba un fascio, più disinformando che informando il vasto pubblico.
Da questo punto di vista, parlare proprio dei difetti del sistema è la via migliore per comprendere quali e quante opportunità esso possa portare, se solo ci si addentra in una trattazione completa e rispettosa del dato oggettivo.
Perché è importante parlare delle insidie potenziali legate all’uso delle cryptomonete e dei servizi ad esse connessi? Forse per censurarle con giudizio perentorio e irrevocabile, suggerendo un massivo ritorno alla valuta classica, magari in contanti, come vorrebbe suggerire una certa impostazione manichea oggi in voga? Certo che no; vale in realtà l’esatto contrario. Posto che sono i truffatori a fare le truffe, e non certo gli strumenti della potenziale truffa a trasformare onesti cittadini in avidi criminali, bisogna rimarcare il fatto che la conoscenza della tecnologia in uso è fondamentale per difendersi da ogni tipo di insidia, truffa o vulnerabilità del sistema, e che solo un’opera di paziente divulgazione può permettere di separare il classico “grano dalla crusca” al fine di comprendere i grandi vantaggi della token economy e le incredibili rivoluzioni che sono state implementate e continuano ad essere migliorate e applicate grazie al suo sviluppo.
Una prima considerazione da evidenziare con forza è che, sgombrando per un attimo il campo da atteggiamenti fortemente orientati alla – chiamiamola – velleità pecuniaria (trading spinto, staking di asset digitali a interesse, etc…) che muove le motivazioni (ci si intenda, del tutto legittime) di numerosi clienti, quella che noi chiamiamo “rivoluzione” della blockchain ha a che fare con il concetto funzionale di distribuzione e decentralizzazione, e con tutte le conseguenze che ne derivano.
I progetti sorti attorno alle potenzialità della decentralizzazione sono tanto numerosi quanto riferiti a soggetti e istituzioni assolutamente riconosciute come pregevoli, nonché ad alto valore innovativo. Dalle economie circolari proposte dalla città di Lugano nel suo PlanB (sorta di grande work in progress per costituire un vero e proprio hub elvetico in materia di crypto, centrato nella relativa città) alle adozioni di bitcoin come valuta a corso legale (si pensi non solo a El Salvador, ma anche alle tante coin metropolitane sorte in città come Miami e New York), dal crypto-salvataggio di intere economie devastate dagli effetti dell’inflazione alla crescente adozione di soluzioni blockchain da parte di esercizi commerciali di ogni ordine e grandezza, tutto il pianeta ormai dimostra nei fatti che l’economia tokenizzata è una realtà dietro l’angolo, e non certo una fantasia.
In primis, dal lato dell’utenza singola e singolare, tale dinamica di parziale o totale cambiamento di paradigma pone l’individuo e solo l’individuo al centro della responsabilità (verso sé stesso, ma anche verso gli altri) e del potere gestionale e decisionale su entità digitali che chiamiamo coin o token (gettone), che a seconda della loro natura fungibile o non fungibile costituiscono una vera e propria versione digitale di asset storicamente identificati – mutatis mutandis – in una varietà di fattispecie note; per citarne solo alcune: metalli preziosi (bitcoin, nonché numerose altcoin a offerta fissa ed effetti deflazionistici), opere d’arte singole o a tiratura limitata (si pensi al crescente interesse del mercato per gli NFT), beni connessi all’andamento valoriale di altri beni (come per esempio l’ampia gamma di stablecoin oggi disponibile grazie agli smart contract resi possibili da reti “intelligenti” come Ethereum, Polygon, Solana), nonché tutte le forme di tokenizzazione che oggi animano la capitalizzazione di progetti assolutamente non riassumibili nello spazio di un semplice articolo.
In altre parole, specie se torniamo all’epoca pionieristica oggi quasi mitologicamente incarnata dal celebre annuncio del misterioso Satoshi Nakamoto circa il rilascio del protocollo Bitcoin, queste tecnologie sottendono implicitamente una base “libertaria”, che di volta in volta può essere declinata a seconda delle esigenze dello specifico utilizzatore, nonché esprimersi in una serie eterogenea di servizi, non necessariamente decentralizzati. Cioè, al cospetto della blockchain e delle sue derivate applicative, gli imprenditori hanno visto un’opportunità imprenditoriale, gli utenti comuni hanno visto una via per affrancarsi dai difetti di un sistema a controllo centralizzato, e i truffatori hanno visto una potenzialità per le loro truffe… La lista potrebbe continuare, annoverando tutto il bene e tutto il male del mondo.
Non bisogna quindi mai dimenticare che, passando dal campo dell’imparziale algoritmo che incarna la funzionalità di un wallet digitale a quello della vita reale, le attività commerciali e imprenditoriali organizzate “con” le crypto e “attraverso” le crypto (gli exchange, per esempio) sono e restano morfologie “umane”, assoggettate alle regole e alle criticità tipiche di qualsiasi altra attività gestita, appunto, da esseri umani in forme squisitamente societarie, classiche, e dunque centralizzate. Neppure in questo caso si tratta di condannare la tale prassi a favore della sua opposta: continueranno infatti a esistere e operare exchange assolutamente validi, solidi e seri, accanto ad altri che dopo poco saranno costretti a chiudere, o in seguito a eventi esplosivi come quello recentemente incarnato dalla vicenda di FTX e del suo amministratore Sam Bankman-Fried, o a causa di dinamiche molto più spicciole, aventi a che fare col comune rischio imprenditoriale.
In altre parole, viviamo in un mondo assolutamente ibrido, nonché iper-connesso, dove il passato più remoto, sia quello buono che quello cattivo, sia quello antiquato che quello assolutamente da recuperare, dialoga col presente, imponendo un ragionamento sul futuro in modalità che necessariamente dovranno essere vagliate dall’intelligenza e dalla competenza del singolo, e non dai dictat arbitrari di un giornalismo spesso incompetente, o di soggetti che hanno molto da perdere, o di altri settori resistenti all’innovazione per le più disparate motivazioni fenomenologiche.
Nello specifico, la tecnologia della decentralizzazione distribuita identificata dalle architetture blockchain è oggi il modello algoritmico di sicurezza e trasparenza in assoluto più valido in termini di transazione e conservazione di asset digitali, in quanto costruito su basi crittografiche ad esclusivo vantaggio dell’utente. Gli attacchi informatici che, al di fuori di una corretta conservazione privata non-custodial, possono “bucare” un sistema sono esattamente gli stessi che, in proporzione ben più ingente dal punto di vista, oltre che statistico, operativo, possono fare lo stesso con una comune carta di credito.
Tenendo a mente il fatto che le truffe e le frodi in euro e dollari sono comunque sempre ben più numerose di quelle in bitcoin o altcoin, e che spesso la demonizzazione indiscriminata di tali tecnologie segue precisi secondi fini autoreferenziali, dobbiamo quindi considerare la cara vecchia massima, sempre valida: da un grande potere deriva una grande responsabilità. Una massima che dovrebbe accompagnare ogni passo verso il futuro, indipendentemente dal fatto che a compierlo sia un imprenditore globale o un comune utente.
La cultura diffusa del mondo attuale, coi suoi sdoganamenti e le sue spesso false ed esteriori battaglie di libertà, tende a dimenticare, e a far dimenticare, proprio questo concetto: la responsabilità. Accanto alla cultura libertaria che può e deve svilupparsi attorno all’idea di tale nuovo potere che il singolo individuo può sviluppare attraverso le rivoluzioni tecnologiche di massa, tra cui appunto quella che ci riguarda (identificata per esempio nella possibilità di aprire un wallet cryptovalutario in piena autonomia, facendo da banca a sé stessi) deve anche essere diffusa e incentivata una parallela e consequenziale cultura della responsabilità che tali poteri comportano.
La risultante di questa dinamica porterà a identificare operatori di settore sempre più seri e qualificati, in grado di educare al meglio la propria clientela, in termini sia di autonomia che di legittima difesa dalle potenziali insidie che i nuovi scenari globali – e il globalismo in quanto tale, concepito ormai come dimensione inevitabile – portano con sé.